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Early afternoon Tales

Ha iniziato a suonare quando aveva 3 anni, ma è circa dal 2000 che Trentemøller, musicista, producer, dj si è fatto conoscere per il suo suono intenso e inclassificabile. È tornato con un nuovo album, Fixion, con la sua band, con un abito sonoro new-wave e con le idee molto chiare.

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Sul palco, piegato sulle tastiere e con quelle gambe lunghissime, sembra quasi un personaggio di Tim Burton: di lui si conosce spesso solo una stereotipata immagine dark, ma alla luce del primo pomeriggio, Anders Trentemøller mostra una ben più ampia gamma di sfumature. Ci accoglie prima della tappa milanese del suo tour per una lunga chiacchierata, in cui ci accompagna per mano attraverso il suo mondo: Fixion, una identità musicale adulta, consigli musicali e persino serie tv.

 

L’ultima volta che sei stato a Milano, sul palco è salita Jehnny Beth (Savages) che è oggi una delle voci del tuo nuovo album, Fixion. Come è nata questa intesa?

 

È vero, ed era la prima volta che la incontravo! Johnny Hostile, produttore delle Savages e compagno di Jehnny, è stato il nostro supporter per alcuni show del 2014 e lei è venuta a trovarci. Io sono un grande fan delle Savages: la nostra musica è diversa, ma abbiamo lo stesso tipo di referenze musicali ed estetiche. È stato un “incontro immediato”: lei è molto diversa dal suo personaggio pubblico, in privato ha uno splendido sense of humor e non è rock star come sul palco, mi piace molto anche questo lato di lei. Abbiamo un’ottima connessione, mi ha chiesto di mixare il disco delle Savages perché io posso capire la loro musica, e allo stesso modo io ho chiesto a lei di cantare in Fixion.

 

A proposito di voci: raccontaci di quelle con cui lavori e di quelle che sogni di raggiungere.

 

La mia idea principale per questo album era non avere molti  featuring, perché il mio ultimo lavoro, Lost, aveva 5-6 vocalist diversi e forse erano troppi per avere il giusto flow: volevo una sola voce (Marie Fisker)che ti prendesse per mano e ti guidasse per tutto l’album. Poi ho conosciuto Jehnny e ho voluto anche lei e in realtà c’è anche la mia ragazza che canta nell’ultima canzone (Lisbet Fritze, Giana Fatory). Ma in qualche modo, soprattutto Marie Fisker e Jehnny Beth, hanno voci che si combinano molto bene assieme, è difficile capire chi è una e chi è l’altra, ma non voglio che siano delle  copie, voglio che ognuna dia la sua interpretazione del pezzo, personalizzandolo. Se dovessi pensare ad una collaborazione da sogno, mi piacerebbe un giorno lavorare con Hope Sandoval dei Mazzy Star o persino con Nick Cave.

 

 

Le voci, ma non solo: ormai ti esibisci sempre live con una band. Com’ è avvenuto questo passaggio?

 

In realtà non sono mai stato un “laptop artist”, sin dal primo album ho avuto con me una band: all’inizio solo un batterista e un chitarrista. La formazione da “full-band” è sempre stata molto importante per me, ma negli ultimi 7 anni ha sicuramente acquisito peso, ormai siamo in 5 fissi, un set-up rodato. Quando scrivo musica, in studio sono io, suono da solo tutti gli strumenti, ma una volta finito l’album mi piace “portarci dentro la band” e trasformare i pezzi, voglio i loro feedback: i ragazzi li adattano e le canzoni  live non sono le stesse che la gente conosce dal disco. I membri della band sono artisti che ho scelto perché mi piace quello che fanno nei loro progetti solisti: come Marie Fisker, o  il nostro bassista che suona nei Choir of Young Believers, il batterista ha suonato con The Raveonettes…È molto importante per me non avere semplici “studio musicians” pagati, ma qualcuno che ha della personalità, che capisce la mia musica e la mia visione.  Prima di un live ascoltiamo insieme vecchi pezzi di musica latina anni ’60: qual è il nostro “guilty pleasure”? Nessuno, perché ogni canzone ha un suo scopo. Canticchiamo sciocchi nonsense improvvisando, poi ci diamo un abbraccio di gruppo e corriamo sul palco.

 

Fixion arriva 3 anni dopo Lost: è la sua prosecuzione ideale?

 

Ogni album nasce dal precedente, ma non vedo questo come una sua diretta conseguenza, non avevo un piano preciso, quando ho iniziato, è stato più che altro uno sviluppo naturale, ho cercato di essere il più aperto possibile. Per me lavorare ad un nuovo disco è come avere davanti una pagina bianca, dove puoi disegnare qualsiasi cosa che senti. Adoro la sensazione dei primi giorni in studio, dove ogni cosa è possibile, ma a volte mi spaventa anche un po’. È un tormento, la sicurezza in se stessi vacilla, ogni volta mi ripeto “questa è l’ultima”. A volte è difficile, fa andar via di testa. Ma poi ci sono quei momenti incredibili, quando in piena notte viene un’idea e si va avanti a lavorare per oltre 10 ore, dimenticando tutto il resto.

 

 

I remix fanno parte del tuo DNA, sono sempre l’altra faccia della tua medaglia?

 

In realtà ho smesso di farne da circa un anno: mangiavano troppo del mio tempo. Certe volte non ne capivo più lo scopo. Se un remix è veramente buono, può portare il suono in un’altra direzione e rivelare nuovi aspetti di un brano. Ma la maggior parte dei remix che sento, sono troppo vicini all’originale, consistono solo nel cambiare un po’ le percussioni. Quello che cerco di fare io, di solito, è costruire una canzone totalmente nuova, magari usando i vocals e una  piccola parte della chitarra. Ma questo richiede molto tempo, è il momento di concentrarmi sulle mie cose. A volte usavo persino idee che forse avrei dovuto tenere per me. Non volevo finire per essere un “remix artist”.

 

Ti conosciamo oggi, ma come hai iniziato? Con quale strumento?

 

Ho iniziato con la batteria quando avevo 2-3 anni, poi a 5 i miei genitori mi hanno comprato questo terribile pianoforte dal suono vintage; molto spesso suonavo quello che sentivo in radio, così ho sviluppato un buon orecchio. I miei mi hanno sempre incoraggiato molto,  in realtà sono l’unico in famiglia che fa musica, ma credo che già allora riuscissero a capire quanto mi rendesse felice. Poi ho iniziato a suonare nelle band e intorno ai 25 anni ad avvicinarmi all’elettronica, perché capivo le potenzialità di “essere il boss di me stesso”. A volte l’aspetto frustrante del gruppo, è dover unire molte teste e rischiare di cadere in un compromesso. Ora sono io che decido, ma i musicisti contribuiscono, mi danno degli input.

 

 

Cosa conosci della musica Italiana?

 

C’è una band che mi piace molto, i Sonic Jesus, una band laziale, e Matteo Valicelli che ha aperto i nostri primi show, e che è il batterista dei The Soft Moon. Conosco Zucchero e Ramazzotti, e molta elettronica che viene dall’Italia. Poi ovviamente sono un grande fan di Morricone…E di Angelo Badalamenti, anche se è italiano solo di origine.

 

Quindi sei un fan di Twin Peaks?

 

Certo! Sono curiosissimo di vedere la nuova serie. Anche un po’ preoccupato, effettivamente, ma so che alla fine David Lynch ha avuto carta bianca, per cui credo sarà bello. Per me il primo Twin Peaks sarà sempre speciale, l’ho amato tantissimo: l’atmosfera, le vibrazioni anni ‘50, il mood con cui mi identificavo. Ho visto Stranger Things, aveva qualcosa di simile, mi è piaciuto  ma penso che Twin Peaks per me sia stato molto più coinvolgente e interessane: l’intreccio di storie diverse, il mistero, l’aspetto mistico, l’atmosfera dei sobborghi.

 

Hai qualche nuova band da consigliarci?

 

Gli Exploded View, messicani: Anika, la cantante tedesca, aveva lavorato con Geoff Barrow dei Portishead. E poi c’è questa nuova band danese, i Marching Church, con il cantante degli Ice Age, che mi ricorda un po’ Nick Cave nella sua prima band The Birthday party: punk-rock, con una grinta classica e una grande abilità di scrittura.

 

Qual è il trend nella scena musicale danese oggi?

 

Accendendo la radio in Danimarca ogni cosa è R&B. La musica commerciale è molto simile e così inizia ad essere anche quella underground. È un peccato perché la cosa speciale del mio paese erano i molti tipi di proposte diverse e la capacità di collaborare in una sana competizione. Credo che sia un’ondata modaiola: ora tutti ascoltano Drake e Frank Ocean, magari l’anno prossimo sarà diverso. Mi spiace che non tentino di fare la loro versione dell’ R&B, ma solo di suonare come i loro idoli. Ad esempio anche i The Raveonettes si ispiravano agli anni ‘60 , ma aggiungevano drum machines, chitarre noise e shoegaze. Anche il mio sound  ha sfumature e ispirazioni anni ’80, ma non deve mai suonare retrò o nostalgico, deve sempre guardare aventi, essere personale e mai sembrare una copia.

 

Cosa significa sperimentare, in musica e nella vita ?

 

Sperimentare non è più così importante: il mio obiettivo è fare la musica più giusta per me. A volte la sperimentazione diventa una guida, ma anche una schiavitù: ti costringi ad uscire con qualcosa di nuovo piuttosto che con qualcosa di onesto per te stesso. Si tratta invece di trovare il suono adatto ad esprimere i tuoi veri sentimenti, magari non il più nuovo, ma il più vicino al tuo cuore. E nella vita? Ormai sono piuttosto “conservatore”, quasi noioso. Ma mi diverto ancora.

 

 

marta